giovedì, ottobre 12, 2006

“L’immagine del fascismo nella testimonianza dei giovani d’allora”

Un affettuoso ricordo va al prof. Raffaele Columbro che pazientemente e sapientemente mi accompagnò alla ricerca di più testimoni e fonti per effetture una ricostruzione e validazione delle informazioni raccolte in questo articolo realizzato nell’anno 1999 per un seminario della Cattedra di Storia Contemporanea della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma "La Sapienza".
Spina Valentino
Studio realizzato attraverso la testimonianza di un anziana donna
I fatti che ora sto per narrare, potranno apparire a molti surreali, anzi potranno addirittura sembrare la trama di uno di quei film in bianco e nero ormai sbiaditi dal tempo; ma in realtà non sono altro che la storia di una donna che ha vissuto il fiore della sua giovinezza nel pieno dell’epoca fascista e che porta ancora vivi nella sua mente i fatti e le immagini di quel periodo.
Credo che di storie, di fatti e di libri sul periodo fascista ormai se ne trovano di tutti i tipi e, un po’ ovunque, ma credo che ogni storia tratta dalla memoria di un anziano possegga in se un non so che di straordinario, un qualcosa che però la società moderna con i suoi nuovi usi e costumi, sembra aver quasi totalmente distrutto, perché pare proprio che ormai non ci sia più tempo per soffermarsi ad ascoltare le “favolette” di un nonno, una nonna, o un anziano in genere.
Devo confessarvi che prima di andare in giro a chiedere informazioni per sviluppare questa ricerca, nemmeno io mi ero mai soffermato a chiedere ai miei nonni notizie sulla loro gioventù, e solamente ora che ormai non ci sono più, mi rendo conto di cosa mi sono fatto sfuggire.
Per tale ragione, ho dovuto chiedere a mia zia di illustrarmi un po’ su come andarono in quel periodo i fatti.
Teresa Spina, prima di sei figli, nacque a Bojano, una piccola cittadina posta alle falde del massiccio del Matese, nel cuore dell’antico e glorioso Sannio, il 28/4/1921, da Giovanni Spina, un artigiano che aveva partecipato al primo conflitto mondiale e che possedeva una ferma fede nella monarchia; e da Giacinta Manna, una donna molto autoritaria e religiosa discendente da una famiglia di sarti di antica tradizione.
Durante tutto il suo racconto, zia Teresa, si è commossa varie volte, ma anche il sorriso non gli è mancato sulle labbra.
La prima cosa che mi ha detto, ma che mi ha ripetuto spesso anche durante il racconto è stata: "La vita in quel periodo, era fatta di stenti e sacrifici, ma anche di gioie semplici" e continuando "Ho tanta nostalgia di quei tempi e della mia giovinezza che purtroppo è sfuggita troppo in fretta".
Presa come da un’ansia di rendermi partecipe delle sue esperienze, è partita a razzo dicendomi: “Dalla scuola al tempo libero, dallo sport alla radio, tutti noi italiani, dai più piccoli agli adulti, eravamo soggetti alla martellante propaganda fascista.
Guai a chi non rispettava la disciplina, la dottrina e i valori fascisti.
Noi bambine e i ragazzi, eravamo educati alla dottrina fascista e al culto di Mussolini sin dalla più tenera età con esercitazioni, sfilate e parate al centro di piazza Roma.
“Credere, obbedire, combattere” era lo slogan che secondo Mussolini doveva contribuire ad educare e formare i giovani fascisti”.
Zia Teresa, oltre ad essere cresciuta in quel periodo, è stata anche maestra a partire dal 1941, e per tale motivo a buon diritto ha potuto affermare: “La scuola fu un ottimo strumento per la diffusione dell’ideologia fascista, infatti, noi ragazzi che crescemmo in quel clima, acquistammo una ferrea fede nel regime.
Tutta la scuola era sottoposta al controllo del fascismo: dai libri ai programmi.
Gli insegnanti, come tutti i dipendenti pubblici, per lavorare dovevano avere la tessera del partito fascista, e anche io, prima di iniziare ad insegnare fui costretta a farla.
In classe, ma come in qualsiasi altro luogo pubblico, vi era la foto o il ritratto del Duce, e continuamente e obbligatoriamente, dovevamo fare le lodi al grande ed intramontabile Mussolini; non solo, ma ci veniva anche sempre detto che dovevamo essere grati ai fascisti perché erano coloro che avevano salvato la patria dalla rivoluzione voluta dai comunisti e dai sovversivi.”
Zia Teresa, ricorda anche i libri: infatti, me ne dà una breve descrizione: “ erano pieni di disegni, immagini patriottiche e di frasi inneggianti al Duce”, ma una frase è rimasta impressa nella sua mente e diceva così “Benito Mussolini ama molto i bambini. I bambini d’Italia amano molto il duce. Viva l’Italia!”.
Tutte le materie erano importanti, ma si ricorda che alla storia si dava maggior importanza, perché è proprio da uno studio attento della storia che nasce l’amor patrio; ma secondo lei era troppo ridotta all’apprendimento di un elenco di date, di nomi e di guerre, interrotto a tratti, da episodi patriottici e da frasi celebri come: “fedeli al Re, ai suoi successori e al regime fascista”.
Tra le altre materie insegnate, l’educazione fisica aveva un ruolo importantissimo; infatti per il fascismo lo sport era altamente formativo non solo perché contribuiva a formare un fisico perfetto, ma abituava anche alla disciplina e all’obbedienza.
Tutta la gioventù italiana quindi era inquadrata nella macchina fascista, infatti i ragazzi e le ragazze venivano iscritti obbligatoriamente nell’Opera Nazionale Balilla, passando, a secondo delle età, dai “Balilla”, agli “Avanguardisti”, ai “giovani fascisti”, questo era per i maschi, mentre le femmine diventavano “piccole italiane” (dagli 8 ai 14 anni) e poi “giovani italiane” (dai15 ai 17 anni).
Anche i bambini e le bambine più piccoli dai 6 agli 8 anni non erano stati dimenticati dal regime ed infatti questo gruppo era chiamato i “figli della lupa”.
Ciascuno di questi gruppi aveva una sua uniforme che lo distingueva dagli atri.
Anche zia Teresa, è stata piccola italiana e giovane italiana, e a tal proposito, mi ha mostrato delle foto, che la ritraevano in uniforme durante un saggio ginnico in piazza.
A questo punto fiera di sé, mi dice: “eravamo davvero bellissime con quelle uniformi e ci sentivamo importanti, perché alle varie manifestazioni tutti ci venivano a vedere”.
“Le nostre divise, erano composte da una camicia bianca di piquet, dalla cravatta nera, da una gonna nera a pieghe, da calze scure e dal basco.
Spesso la domenica, vi erano le adunate obbligatorie, a cui noi giovani dovevamo partecipare in completa divisa per festeggiare qualche gerarca fascista di grado più o meno elevato in visita al paese”.
Le manifestazioni sicuramente più importanti e a cui vi era una gran partecipazione, erano quelle del 24 maggio e del 4 Novembre, a cui anche quasi tutti gli adulti vi prendevano parte con la camicia nera.
A proposito di eventi importanti, ne ha raccontato uno che mi ha lasciato davvero stupefatto: e cioè che nel 1935 il Duce passò e sostò a Bojano, quando mentre era di ritorno dall’Irpinia, si recava a visitare la XXXIII Marzo accampata a S. Maria del Molise (un paesino a pochi chilometri da Bojano), e in quell’occasione, una marea di gente proveniente anche dai paesi limitrofi, lo accolsero pieni d’entusiasmo.
Ma il fascismo voleva ampliare ancora di più il suo consenso e a tal fine sfruttò i mezzi più moderni, quali i giornali, la radio e il cinema.
La radio infatti si dimostrò un mezzo efficacissimo per le informazioni che il regime voleva far conoscere agli italiani.
“Anche noi a casa avevamo la radio e ogni qualvolta che c’era un discorso del Duce tutti ci fermavamo ad ascoltarlo; chi invece non aveva la possibilità di poterlo ascoltare da casa propria, si recava da qualche amico o parente oppure nei locali pubblici, o nei luoghi d’incontro.
Ricordo abbastanza i discorsi alla radio di Mussolini, egli usava un linguaggio semplice, articolato in frasi brevi, ma di effetto perché proclamati con una grinta straordinaria”.
Sappiamo bene dalle varie fonti storiche, l’effetto che questi discorsi provocavano cioè un totale coinvolgimento della folla.
Nel tentativo di conquistare sempre di più il consenso delle masse, il fascismo diede vita anche ad una fitta rete di circoli del dopolavoro.
Così anche a Bojano, come nel resto della nazione, operai e artigiani, si organizzavano il tempo libero.
“Non ti so dire molto su queste attività ricreative, perché papà ci andava raramente in quanto affermava che in quei luoghi si faceva troppa propaganda a favore del regime, e lui essendo monarchico, non aveva mai potuto vedere di buon occhio nè Mussolini e né il fascismo, ed era convinto che prima o poi l’uomo da tutti elogiato avrebbe condotto alla rovina l’Italia”.
In queste zone gli avversi al fascismo erano pochissimi e anche quei pochi che c’erano, stavano in silenzio per paura della polizia fascista.
Proprio grazie alla particolare attenzione e cura che il fascimo sembrava offrire alla gente, che specialmente qui nel mezzogiorno era da sempre vissuta tra miseria, soprusi e menefreghismo dei governanti, ottenne un vastissimo consenso.
“Per quel che riguarda l’alimentazione, sicuramente non era abbondante come oggi, anzi a volte si faceva anche un solo pasto al giorno e forse proprio per tale ragione anche una semplice mollica di pane si apprezzava veramente.
Il nostro pranzo era di solito basato sugli ortaggi, vale a dire: minestrone, “ciambotta”, pizza e minestra e via dicendo. Spesso quando non mangiavamo verdura, mamma preparava o le uova fritte o le trote, che si andavano a pescare direttamente nell’acqua limpida e fresca del fiume Biferno.
La carne si mangiava molto raramente, vale a dire a Natale, a Pasqua e in qualche altra occasione davvero speciale.
A Natale si preparavano: i maccheroni di casa, sia con il capitone che con l’anguilla (ma si mangiavano anche arrosto); le frittelle dette appunto “frittelle della vigilia” ( che erano composte da un impasto di farina, uova, baccalà, alici e cavolfiori); ed infine la “pizza con i cicoli”.
A Pasqua invece, ricordo una particolare usanza e in pratica il Sabato Santo, dopo aver preparato tute le varie pietanze, cioè: la stracciatella con lo spezzatino; i maccheroni alla chitarra da fare con il brodo di gallina; l’agnello da arrostire e la “pigna” (cioè il panettone) su cui mamma usava mettere un ramoscello d’ulivo;si poggiava il tutto su un tavolo con una tovaglia bianca e a sera si aspettava l’arrivo del sacerdote che veniva a dare la benedizione al cibo e alla famiglia”.
Ad un certo punto della narrazione, io mi lascio trasportare dall’immaginazione, e man mano che zia prosegue nel narrare i fatti, mi sembra di viverli.
“Quando in quel primo settembre 1939, la Germania invase la Polonia e di conseguenza la Francia e la Gran Bretagna, dichiararono guerra alla Germania nazista, un ansia assalì i nostri cuori e la paura di dover affrontare ulteriori sacrifici e dolori, specialmente dopo che papà ci raccontò del primo conflitto mondiale, faceva riflettere sulla pazzia di Mussolini ad essersi legato con il Patto d’Acciaio al Fuhrer, che senza alcuna logica rischiava di trascinare in guerra anche l’Italia.
Quella fu sicuramente una delle giornate più angoscianti della mia vita, come del resto credo di tutta la nazione. Tutti ci radunammo intorno alla radio e tutti in silenzio con la saliva in gola, aspettavamo le sorti del nostro destino.
Nel preciso istante in cui la notizia della non belligeranza dell’Italia, uscì dalla radio, la gioia non arrivò alle stelle, ma oltre”; anche se storicamente le responsabilità sono da attribuirsi all’inganno dello stesso Hitler.
“Tutti vedemmo in quel momento Mussolini come quell’uomo buono, onesto, amante della sua patria, che era riuscito a salvare tutti dalla guerra ormai certa.
Ma bastarono poche settimane per comprendere che le intenzioni del duce di rimanere estraneo al conflitto erano solo momentanee; infatti il 19 giugno 1940, dopo una lunga campagna pubblicitaria a favore della guerra che veniva prospettata come una guerra lampo, l’Italia scendeva in campo al fianco della sua alleata, dichiarando guerra alla Francia e alla Gran Bretagna”.
Come ben sappiamo il Duce prese questa decisione perché, visto che la Francia era ormai sull’orlo del collasso, egli credeva che la guerra stesse volgendo al termine con l’ormai quasi certa vittoria tedesca e perciò temeva di rimanere a mani vuote.
Commise un grave errore: sottovalutò la forza della Gran Bretagna e non tenne conto della possibilità che gli Stati Uniti entrassero in guerra.
Fu un errore fatale, anche perché l’Italia era del tutto impreparata ad affrontare la guerra, infatti l’esercito italiano disponeva di armamenti limitati e oltretutto arretrati.
Le prime iniziative belliche dell’Italia rivelarono subito l’insufficienza delle sue forze armate.
“Nessuno per i primi tempi riuscì ad accettare la guerra soprattutto perché si combatteva al fianco dei tedeschi, che venivano considerati come gli unici responsabili di questo disastro. Anche Hitler non veniva visto di buon occhio, anzi era proprio odiato da tutti e veniva visto come un uomo freddo, crudele, senza cuore e con un modo di fare bestiale”.
“Solo dopo molto tempo riuscimmo ad accettare la realtà dei fatti”.
“Con il passare dei mesi, ci rendemmo anche conto che la tanto odiata guerra era tutt’altro che lampo, ma ci facemmo l’abitudine e si iniziò a vivere nella quasi più totale indifferenza”.
“L’anno successivo esattamente nel 1941, in piena guerra, iniziai ad insegnare nella scuola elementare di Cercepiccola e in quei primi mesi conobbi un giovanotto di nome Cristino, ma sfortunatamente dopo non molte settimane, fu costretto a partire anche lui per la guerra.
Dopo circa due mesi, mi giunse una lettera, era lui, Cristino, che mi scriveva dalla Calabria e mi raccontava della sua vita da soldato.
Continuammo a scriverci e in ogni lettera che mi spediva, mi diceva che tutto il proposito di combattere una guerra per un mondo migliore, stava svanendo.
Diceva sempre che voleva essere un uccello per poter volare via perché la vita era troppo dura specialmente per il fatto che era insopportabile dover convivere con i pidocchi e le pulci.
Cristino tornò raramente a Cercerpiccola; ma quando tornò per una licenza nel mese di maggio del ’43, mi chiese di sposarlo e cosi il 16 maggio dello stesso anno ci sposammo.
Dopo appena una settimana Cristino fu costretto a ripartire, ma da quel giorno per molti mesi non ebbi più sue notizie”.
Tra il 9 e il 10 luglio del ’43, quando le forze Anglo-Americane (gli Alleati) avevano ormai il controllo del Mediterraneo, gli alleati sbarcarono in Sicilia.
Ovunque, gli Anglo-Americani erano accolti dalla popolazione come dei liberatori.
“Noi italiani volevamo la fine della guerra a qualunque prezzo, ma eravamo anche stanchi del fascismo”.
“A tutti ormai ci appariva evidente che Mussolini aveva sbagliato a condurre il paese in guerra; che le nostre forze armate non erano preparate; e che l’Italia non aveva fatto altro che stare sotto il giogo dei tedeschi”.
A questo stato di cose, il 25 luglio 1943, Mussolini fu convocato da Vittorio Emanuela, a consegnare le dimissioni e immediatamente dopo fu arrestato dai carabinieri.
Lo stesso giorno il re affidò l’incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Badoglio, ex comandante delle forze armate.
“Tutti eravamo convinti che con la caduta del fascismo, era prossima la fine della guerra, ma non fu così; in realtà stava iniziando la fase più dura”.
Il 3 settembre il generale Castellano per conto del ministro Badoglio firmò l’armistizio con gli alleati; ma venne reso noto solo l’otto settembre.
Repentinamente i tedeschi inviarono in Italia forti contingenti di truppe per contrastare l’avanzata alleata e le eventuali rappresaglie partigiane.
“Mi ricordo che a parte qualche raro episodio di reazione contro i soldati tedeschi, in queste zone del basso Molise la situazione fortunatamente si mantenne abbastanza calma.
I tedeschi non sono stati mai troppo crudeli nei nostri confronti, al massimo venivano per le case a rubarci mucche, pecore, porci, qualche pagnotta di pane e le patate, ma niente di più”.
“Un primo episodio più o meno significativo, avvenne proprio davanti ai miei occhi approssimativamente in questo stesso periodo, cioè un ragazzo bojanese che non aveva troppa simpatia per i tedeschi, rubò una motocicletta ad un porta ordini, davanti al palazzo Colagrosso in pieno centro del paese.
Il soldato, ingenuamente, lasciò la motocicletta accesa e di corsa con una borsa sotto il braccio si precipitò nel palazzo, dove era collocato il comando tedesco.
Ricordo la faccia del soldato, quando uscì dal portone, era davvero arrabbiato e girandosi intorno iniziò a gridare qualcosa in tedesco.
Se quell’incosciente di ragazzo fosse stato preso, lo avrebbero sparato ipso facto”
“Un altro fatto che ora mi vado ricordando e forse più interessante, fu quello sempre di un giovane del luogo, che sparò una schioppettata con un fucile da caccia contro un soldato tedesco, fortunatamente senza colpirlo ma per la paura di essere sparato di nuovo, il soldato si nascose per molte ore in un cespuglio. Il resto della truppa, non trovando più il compagno, presero dieci persone a caso tra noi civili e le condussero a San Polo Matese (un altro paesino vicino Bojano), dove gli fecero scavare con le loro stesse mani la fossa. Fortunatamente il soldato vittima dell’attentato riuscì giusto in tempo, sarebbe bastato qualche altro minuto che per i nostri compaesani non ci sarebbe stato più nulla da fare”
“Quindi ti ripeto ancora che la situazione, a parte qualche episodio, si mantenne cauta e forse proprio per questo non ci scappò il morto.
Per quel che riguarda la resistenza e l’avversione al nemico posso dire, anche da questi fatti che ti ho raccontato, che qualche germe di reazione specialmente tra i giovani, iniziava a formarsi, ma fu ben presto soffocato dalla fine della guerra”.
L’annuncio dell’armistizio, comunicato via radio da Badoglio, gettò l’Italia nel caos completo, infatti sia l’esercito che la popolazione, non sapevano proprio come fronteggiare la nuova situazione.
Le truppe italiane, abbandonate a se stesse, si sbandarono e non seppero opporre una resistenza organizzata ai tedeschi.
“Dopo l’armistizio, anche Cristino, abbandonò la sua postazione e ritornò a casa a piedi dalla Calabria.
Quando lo rividi, mi sembrava un sogno; lo ritenevo morto, perché ormai erano mesi che non avevo più sue notizie.
Aveva un’aria stanca, era molto sciupato, indossava una camicia verde e aveva una pistola infilata nella cinta del pantalone”.
Di questo periodo che va dal 1943 al 1945, zia Teresa, ricorda vari episodi, che anche se non sono stati di grande importanza storica, meritano in ogni modo di essere qui riportati fedelmente: “Il 10 settembre del 1943 in seguito al bombardamento di Bojano, più della metà della popolazione locale, scappò su a Civita Superiore (un antico borgo medioevale, che sovrasta il centro bifernino, e da cui si può tenere d’occhio tutta la vallata).

Proprio qui a Civita, nello stesso mese di settembre, in seguito all’armistizio, i tedeschi posero un osservatorio sul belvedere, precisamente in corrispondenza della chiesa vecchia, sotto un albero di noci (che ancora tutt’oggi c’è).
Qui vi erano due tedeschi, con un banchetto, dei cannocchiali e un apparecchio ricetrasmittente, che osservavano e comunicavano alle loro artiglierie posizionate a Castellone (una frazione agricola sita nella periferia di Bojano) e nella stessa Bojano, come dovevano aggiustare il tiro, a secondo dei movimenti che avevano visto a Vinchiaturo e a Monteverde, dove erano già pervenuti i canadesi.
Quindi si capisce bene che questo osservatorio, era di fondamentale importanza strategica.
Non appena i due soldati comunicarono le coordinate, due cannonate partirono dai cannoni di Castellone verso Vinchiaturo.
Il primo proiettile andò a vuoto, mentre il secondo centrò il campanile della chiesa al centro del paese, su cui vi erano appostati due osservatori rivali.
In quei giorni esattamente il 26 settembre, due giovani bojanesi vale a dire Fernando M. e Mincuccio R, che fino a pochi giorni prima si erano considerati fascistoni, improvvisatisi partigiani, si fecero accompagnare da un giovane pastore esperto conoscitore dei sentieri che attraversano la montagna, a Guardiareggia, per avvertire gli americani che i tedeschi, avevano posto quest’osservatorio a Civita nei paraggi della chiesa.
A Civita, come ben sai ci sono due chiese e nei pressi di quella vecchia, ci rifugiavamo gran parte di noi sfollati, con gli stessi familiari del buon Fernando M.
Fortunatamente gli americani capirono la chiesa nuova e non quella dove eravamo noi tutti.
Subito dopo che questi due intelligenti individui, ebbero avvertito gli americani, un aereo di ricognizione venne a farsi un giro sulle nostre teste.
Dopo neanche due ore, giunsero anche i bombardieri, che ci sganciarono addosso una pioggia di bombe; fortunatamente molte di queste non raggiunsero gli obiettivi che altrimenti avrebbero raso al suolo il piccolo borgo medioevale provocando la morte di migliaia di persone.
Ma nonostante ciò, in quell’occasione furono ugualmente molte le persone che persero la vita.
L’otto ottobre sempre dello stesso anno, mentre ancora eravamo rifugiati su a Civita, Bojano fu bombardata dagli americani, e fu in quell’occasione che l’antica cattedrale venne in gran parte distrutta; si salvarono solo il campanile, il presbiterio e due tele raffiguranti la vita di San Bartolomeo.
Dopo questo bombardamento, i tedeschi abbandonarono Bojano e noi ridiscendemmo giù al paese a cercare ciò che rimaneva delle nostre case”.
“Ricordo che tra gli alleati che giunsero in questa zona, vi erano anche degli scuri di pelle e inizialmente avevamo paura di avvicinarci a loro, ma con il passare dei giorni, ci accorgemmo che erano tutt’altro che cattivi; infatti ci fornirono un sacco di ben di Dio, per non parlare poi della cioccolata che ci diedero”.
“Ma Bojano, fu nuovamente bombardata per una svista nell’inverno a cavallo tra il ‘43 e il ’44; in quell’occasione avvenne che gli aerei americani, scambiando il nostro paese per un centro ancora da occupare, sganciarono alcune bombe che distrussero delle case poste lungo Corso Amatuzio.
Prontamente però un capitano polacco iniziò a sparare dei razzi di segnalazione, per avvertire i bombardieri che qui vi erano già giunte le forze di liberazione”.
Credo che tutti ben sappiamo, come la risalita della penisola da parte degli alleati, sia stata piuttosto lenta e difficile e come i liberatori furono costretti ad una lunga sosta nella zona di Cassino.
“In quelle notti avevamo una gran paura, perché di continuo passavano su di noi ricognitori e bombardieri, che provenienti da Foggia, si recavano a bombardare Cassino;
l’unica nostra speranza era che non lanciassero bombe anche su di noi.
Si distinguevano chiaramente anche le cannonate e le esplosioni, che da Isernia, Venafro e Cassino giungevano fino alle nostre orecchie; ma non solo, di notte bastava volgere lo sguardo verso quelle zone per scorgere un bagliore che non finiva mai”.
Dopo tanti mesi di stenti e sacrifici, il 25 aprile 1945 l’Italia fu liberata definitivamente dai tedeschi.
Dopo tutto questo racconto non mi resta altro da fare che ringraziare zia Teresa, per il tempo che mi ha dedicato e concludere riportando alcuni stralci di una canzone di F. De Gregori, che secondo me senza bisogno di spiegazioni racchiude tutto il succo di questa tesina.
Il testo così dice “La storia siamo noi, nessuno si senta offeso… La storia siamo noi attenzione, nessuno si senta escluso. La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da raccontare…; …però la storia non si ferma davvero davanti ad un portone, la storia entra dentro le nostre stanze e le brucia, la storia dà torto o dà ragione, la storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere o tutto da perdere. E poi la gente, perché è la gente che fa la storia, quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti che sanno benissimo cosa fare, quelli che hanno letto milioni di libri insieme a quelli che non sanno nemmeno parlare ed è per questo che la storia dà i brividi perchè nessuno la può cambiare. La storia siamo noi, siamo noi madri e figli, siamo noi bella ciao e partiamo, la storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano… La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano”[1].

[1] “La storia” F. De Gregori

1 commento:

Anonimo ha detto...

"a li tiempe mije, quanne ce steva la 'uerra, ce magnavame sule pane, crosta e mellica..."